
La rubrica “IN LIFE” è curata dal network di professionisti → Digital Guys, fondato da Fabrizio Bellavista, Antonio Cirella, Stefano Lazzari, Danilo Premoli, ognuno con conoscenze abilitanti alla trasformazione digitale.
Il format di “IN LIFE” prevede la pubblicazione di un articolo ogni 15 giorni su Office Observer. Il martedì della settimana successiva viene fatta una diretta di approfondimento, in cui si potranno fare domande agli autori.
La parte ludica
Ci sembra giusto puntualizzare alcuni aspetti dei mondi virtuali che si differenziano e se possibile ci discostano dal puro intrattenimento, di cui è comunque permeato ogni software di questo tipo.
Intrattenere, sì ma a che scopo? Intanto per aggregare, sia che si parli di MMO (Massive Multiplayer Online) oppure di FPS (First Person Shooter) o TPS (Third Person Shooter) un tutte le piattaforme di gaming online le persone che le frequentano lo fanno primariamente per giocare, ma anche per provare qualcosa di esperienziale insieme ad altri giocatori. Se ci pensiamo, il fatto di personalizzare un Avatar col fine di creare una propria identità, altro non è che un gioco di ruolo; si gioca con una immagine che principalmente ci piace e che anche solo in modo secondario ci rappresenta in quel mondo virtuale. Come abbiamo visto nella scorsa puntata, non tutti i mondi virtuali permettono di personalizzare il proprio Avatar, e questo va considerato.
La parte ludica rappresenta quindi un aspetto che non può e non deve far dimenticare o anche solo perdere di vista la possibilità di fare esperienze personali e professionali nei mondi virtuali. Grazie all’uso di economie interne, infatti, i mondi virtuali (anche qui non tutti) permettono di creare veri e propri business.
“Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita” scriveva William Shakespeare a proposito della nostra vita insieme oggettiva e immaginaria, e alla stessa conclusione giungiamo anche oggi, che né scienza né filosofia contemporanea hanno trovato di meglio per descriverla.
Partiamo alti, perché il discorso ludico è serio. Serio come lo è un gioco. A ricordarcelo non è solo Bruno Munari, che dalla sua capacità immaginativa e creatività (mai sostantivo fu più coerente con il risultato) ricavò oggetti concretissimi, progetti concretissimi.
Ma si parla di gamification (l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi e delle tecniche di game design in contesti non ludici) in economia e nel marketing, discipline serissime, alle quali il nostro lavoro si affida senza il sospetto del pericolo ludico: che a lavorare ci si diverta pure, fa mediamente strano. Il problema, sciagurato, di coniugare immaginario e lavoro non è solo un problema del business, ma anche del lavoro intellettuale. Josef Conrad, che lavoratore intellettuale era, si domandava: “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo dalla finestra io sto lavorando?”
Ci vogliamo divertire e dunque siamo serissimi. Il punto è questo: i mondi virtuali sociali sono seri? Possiamo affidare ad un gioco i problemi di una azienda, lo sviluppo di un business, la realtà concreta di relazionarsi fra adulti e generare un reddito? La risposta è serious game.
Da Wikipedia: “I serious game sono giochi che non hanno come scopo principale l’intrattenimento, ma sono progettati soprattutto a fini educativi. Generalmente i serious game sono strumenti formativi e idealmente gli aspetti seri e ludici sono in equilibrio. Al centro dell’attenzione sta la volontà di creare un’esperienza formativa efficace e piacevole, mentre il genere, la tecnologia, il supporto e il pubblico variano. È difficile trovare una netta distinzione dai giochi di intrattenimento, perché è spesso l’uso del giocatore stesso che ne determina l’aspetto formativo. Anche la simulazione virtuale interattiva è spesso considerata serious game. Entrambi hanno lo scopo fondamentale di sviluppare abilità e competenze da applicare nel mondo reale attraverso l’esercizio in un ambiente simulato e protetto. Diversamente dalla gamification, che contiene solo alcuni elementi mutuati dai giochi, quali l’assegnazione di punti o il raggiungimento di livelli, il serious game è gioco a tutti gli effetti”.
Dunque, sì: gli entertainment game, con tutte le differenze di genere elencate sopra e i serious game sono fatti della stessa materia digitale, ma se ne discostano nelle finalità. Nei giochi, per convogliare l’esperienza, si crea un campo, il terreno di gioco all’interno di uno spazio ben delimitato, quello che viene chiamato gameplay (giocabilità), ovvero l’esperienza dell’interazione del giocatore con il gioco, al cui interno i primi creano una trama, un roleplay preciso. I secondi no, non hanno roleplay, sono gameplay neutrali rispetto alle intenzioni dell’utente, non precostituiscono né ruoli né ambienti, forniscono risorse e denaro, potremmo definirle le materie prime con le quali ognuno potrà costruire il proprio posto nel mercato e in società, dare servizi, prodotti o anche semplicemente essere lì per giocare. Per dargli un genere tecnico, possiamo definire i serious game digitali dei Muve, Multi User Virtual Environmnet, ambienti virtuali multiutenti.
Quando nel 2007 Second Life, il decano dei serious game, si presentò al mondo, neppure immaginavamo cosa fosse, e cosa ci avremmo trovato. Molti si lamentarono che non c’era niente, aspettandosi un rolepaly, qualcosa da fare. Ma il gioco chiedeva a noi: “Cosa vuoi fare?” Seconda Vita sembrava un nome inappropriato, esagerato, respingente per le aziende, ma in quella promessa stava l’opportunità per fare impresa. Molto seriamente.
Nel prossimo articolo ve ne parleremo.
Per approfondire sul sito Digital Guys
[testo di Stex Auer e DJ Guru – Digital Guys]

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con Antonio Cirella e Stefano Lazzari
18 maggio 2021 ore 18.00 CET
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