Dal Metaverse al Metaoffice il passo è breve. (Digital Guys)
[testo di Stefano Lazzari]
Quando all’alba del millennio posi piede per la prima volta in Avaterra (non so a voi, ma a me la parola Metaverso è arrivata a noia totale, la considero come lo zucchero per i bambini, qualcosa da mettergli in bocca per farli stare tranquilli, e riprendo a nominarla come ho sempre fatto: Avaterra, la terra degli Avatar; un territorio si definisce dalla cultura che la rappresenta) lo feci portando con me, come quando sui cinque anni tentai una fuga da casa, una valigina piena di sogni, una merenda, il mio fumetto preferito e il pigiama. Tutte cose utili e familiari, che facevano casa, che mi riconducessero nell’eventualità di una ritirata come briciole di Pollicino al nido da cui partico, e contemporaneamente indispensabili per la mia avventura nell’ignoto.
Arrivato nella Terra Incognita, la prima cosa che pensai di fare fu quella di trovare un posto per fare casa. Un posto dove stare, dove fare ritorno, un posto protettivo e da proteggere, il limite nel quale trovare rifugio e dal quale partire, per tornare. C’è sempre bisogno di un punto di partenza, chiunque, anche il nomade più convinto, là dove risiede, pone la sua tenda, costruisce il suo perimetro.
Di conseguenza, presi terra. Un’isola, per la precisione. Già di per sé, l’isola ha un perimetro, è accessibile ma protetta dall’acqua, un elemento connettivo e separante al contempo. Fantastico, non c’è bisogno di demarcare, rivendicare, sottrarre o conquistare. L’isola era lì, nuova, appena emersa dalle acque, tutta per me: ero il suo demiurgo, potevo plasmare il mio mondo come volevo, era l’opportunità che cercavo: costruire un mondo esattamente come lo volevo, innalzare monti, piantare boschi, aprire strade, costruire la mia abitazione ideale.
Già esistevano generatori 3D di paesaggi, il mitico Terragen (nell’immagine), o World Machine, ma erano software per il rendering, creavano scenari straordinariamente fotorealistici, ma avevano un difetto ai miei occhi, non da poco: non creano mondi da abitare. L’abitare di una pluralità di identità, di individui, di gruppi sociali, di realtà identitarie, politiche, benché immaginarie, se così possiamo etichettarle, comporta lo stesso problema di quelle fisiche. La coabitazione, dal condominio alle nazioni, non è mai facile.
Abbiamo dunque l’opportunità di costruire un mondo d’utopia, una isola felice, una Città del Sole? Certo, possiamo. Possiamo creare un mondo a nostra immagine e somiglianza, riprendere il nostro immaginario e concretizzarlo, formalizzarlo in un universo. Ma attenzione. Potrebbe essere un universo di solitudine. D’altronde, essere Dio comporta una certa solitudine, per forza di cose.
La costruzione di universi costruiti su di sé, in questa sorta di democrazia orizzontale che è il digitale, potenzialmente infinito (la giusta dimensione per Dio) permette la costruzione di un agglomerato di infiniti mondi, ognuno a immagine del proprio creatore. In questo c’è molto caos. Un caos creativo, vitale, esatto opposto di quanto avviene in natura, dove la vita è estremamente rara, una emergenza straordinaria nella colossale quantità di materia presente nell’universo.
Ma possiamo immaginare di essere un ipotetico viaggiatore dove ad ogni tappa debba adattarsi alla natura di ogni mondo… un viaggio dove ogni arrivo è il punto di partenza per il “reset” del mondo precedentemente visitato, un caleidoscopio di esperienze vertiginose, come in “Valerian e la città dei mille pianeti”, il film di Luc Besson dove si passa senza soluzione di continuità da un mondo acquatico a uno sotterraneo a uno gassoso a uno a somiglianza di un suk mediorientale. Finalmente. Qualcosa di umano.
Ho volutamente portato al paradosso la personalizzazione per affrontare una questione fondamentale e poco presente tra creativi costruttori di mondi. Essere demiurghi del mondo non significa solo renderlo a propria somiglianza, ma renderlo abitabile da altri e permettere la loro esperienza. Che magari non corrisponde esattamente alla nostra. Questo è uno dei presupposti fondamentali, condizione sine qua non, vero valore aggiunto di quello che usiamo genericamente chiamare Metaverso: essere condivisibile e abitabile, dunque permettere a noi e agli altri la possibilità di riconoscersi in un ambiente culturalmente coerente con l’esperienza che desideriamo fare con loro.
Spesso ci si limita a prendere in considerazione una generica fotoriproduzione della realtà. Una estetica moderna, lussuosa e patinata da interior design magazine oppure al suo contrario, spazi di assoluta astrazione esoterica. L’ambiente va pensato in misura dell’esperienza, intimamente connaturata con il luogo in cui questa viene esperita. Altro aspetto da prendere in considerazione è che non sempre il luogo perfetto per un certo tipo di esperienza nella realtà sia altrettanto valido nel virtuale. Siamo in un ambiente grafico, dunque non dobbiamo dimenticarci che la narrazione gioca un ruolo importantissimo nella creazione del valore nel luogo in cui andiamo a fare l’esperienza.
Il luogo dell’incontro informale, il luogo della discussione e della cooperazione, il luogo della concentrazione, il luogo dell’archivio e della memoria che nella vita reale spesso sono ambienti anonimi privi di qualunque affordance sono realizzati coi vincoli che ci dà la realtà: l’economia dei materiali, i vincoli di ambiente e organizzazione degli spazi, la fisica. Eppure, questi stessi ambienti, possiamo narrarli e dunque rappresentarli in modo più efficace, più vicini ai sensi, più vicini ai sentimenti.
Fuori di dubbio, non è l’adesione al realismo il metro di paragone del valore di una esperienza virtuale, ma certamente ha il suo bel peso. Sono altrettanto convinto che avendo ben centrato l’obiettivo sull’esperienza, è questione di autenticità, non di originalità a tutti i costi, né di tradizione architettonica. Sono abbastanza sicuro che in questa direzione, più l’esperienza si avvicina alla narrazione, più il sensibile, il corporeo entra in gioco, più siamo vicini ad esperire un senso intimo di umanità, e connaturato con la nostra idea di corpo, di spazio, di mondo.
[maggio 2022]
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Stefano Lazzari
“È ora che la tecnologia si rifletta nella cultura e non viceversa”. Questo pensiero sintetizza venti anni di lavoro nel digitale, dall’editoria al marketing al social media management, di Stefano Lazzari, che dal 2006 ha un avatar nel Metaverso: Stex Auer, il suo gemello digitale. Nel 2016, con Fabrizio Bellavista, Antonio Cirella e Danilo Premoli, ha fondato Digital Guys, network di professionisti che si occupa di etica, cultura e design digitale, modi virtuali e social media. → Digital Guys
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